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Simone Moro e il gioco infinito

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[caption id="attachment_16930" align="aligncenter" width="760"] Simone Moro al G2[/caption]

Simone Moro ha partecipato alla quarantesima edizione del Banff Mountain FIlm Festival, che si è tenuto a Banff dal 30 ottobre al 7 novembre. Il suo film I-VIEW era tra i finalisti e il suo libro "La voce del ghiaccio" è stato recentemente tradotto in inglese e presentato al festival. Simone ha anche preso parte a una serie di incontri e di workshop. Noi Lo abbiamo incontrato per una bella chiacchierata: abbiamo parlato delle persone che sanno ispirare, del divertimento di andare in montagna, dell’alpinismo che sarà e delle emozioni che lo hanno accompagnato nelle salite degli ottomila in inverno...

Simone, tu sei già stato in Canada più di una volta, ma hai già fatto alpinismo da queste parti?

No, devo dire che Canada e Alaska sono due posti che mi mancano ancora, sono venuto quattro volte a Banff e mi trovo particolarmente bene qui perché riesco a conciliare la presenza al Film Festival con i miei allenamenti, ho arrampicato un po' ma mai praticato veramente alpinismo.

Ti piacerebbe farlo?

Mi piacerebbe, perché qui ritornerei ad appropriarmi di aria e di spazi, che sono le cose che sempre di più mancano, anche in altre aree alpinistiche. Quando parlo di aria e di spazi, intendo la possibilità di non vedere tutto concentrato. Il Canada è gigantesco e ha un potenziale infinito: dalla roccia, al ghiaccio, al misto... purtroppo sono sempre venuto qui con i giorni contati e le mie spedizioni alpinistiche si sono sempre dirette altrove, ma non nascondo che il mio essermi specializzato nelle invernali è proprio per cercare quest'aria e questo e spazio. Grazie alla invernali, li ritrovo su montagne che, fino a pochi mesi prima, non dico fossero affollate ma... non erano come piacciono a me.

Il BMFF  festeggia 40 anni e Simone festeggia la sua presenza qui con un libro, che è la traduzione in inglese de "La voce del ghiaccio", con un film che è "I-ViIEW" e con diversi interventi in panel e tavole rotonde. Come ti stai trovando e quali sono le tue emozioni qui a Banff con questa molteplice presenza?

Di sicuro questo è stato l'anno in cui a Banff il mio programma è stato più pieno, e di sicuro non mi sono mai trovato sotto i riflettori in maniera così intensa e diversa. Vedere un mio film in finale è già un grandissimo successo. Rispetto alle storie che vengono presentate qui, alla qualità delle immagini e al budget investito, io consideravo il mio un filmetto, e... tale probabilmente rimane, rispetto ad altri, ma il semplice fatto che lo abbiano proiettato in prima mondiale in un momento di grande presenza nella sala, subito dopo il panel sui 40 anni del Banff Mountain Film Festival è stata una grande soddisfazione e un bel regalo che mi hanno fatto, come anche lo è stato l'essere invitato al panel per parlare di 40 anni di festival passati e cercare di ipotizzare i 40 anni futuri. Sono stato anche molto felice dell'intervista del primo panel, in cui hanno voluto dare visibilità al mio personaggio, con la standing ovation alla fine, altra cosa inaspettata mi ha davvero gratificato.

Facendo riferimento ai tuoi mentori, tu citi spesso Anatoli Boukreev di cui hai scritto in diversi libri; con Mario Curnis, invece, hai recentemente pubblicato un libro con Rizzoli sulla vostra cordata; che cosa ti ha lasciato Anatoli e cosa ancora oggi ti trasmette Mario?

Anatoli e Mario sono simili, seppur di generazioni diverse - Anatoli potrebbe essere il figlio di Mario - e tutti e due evocano il valore e la virtù della saggezza. Erano dei saggi umili, che non amavano predicare; bisogna avere solo la fortuna di incontrarli lungo la strada e non lasciarseli scappare, perché non sono le classiche sirene sullo scoglio che attirano le persone, devi essere tu a cogliere la loro personalità e capire l'importanza di tenersi stretto un incontro di questo tipo. Anatoli è stato forse l'incontro più importante della mia carriera alpinistica, anche se poi ho avuto altri compagni. Mario, invece, è stato l'incontro più importante a livello umano, seppure abbiamo anche fatto dell'alpinismo insieme: Mario ha fatto con me la traversata delle Orobie, la spedizione in Tien-Shan nel 99 e la salita all'Everest nel 2002. Lui aveva dai 64 ai 66 anni in quel periodo e in teoria non doveva essere sulle montagne con me, in teoria aveva l'età per cui avrebbe dovuto raccontare le montagne che aveva vissuto. E invece Mario, che è sempre stato un grande uomo, ha raccontato molto più il se stesso muratore che non l'alpinista, cosa che, peraltro, non si è mai vergognato di essere stato. Anche Anatoli Boukreev, senza raccontarsi, era un caterpillar dal punto di vista alpinistico ed era un gigante come personalità. Quindi sono stati due incontri fondamentali, sono stati i miei mentori ma non ho mai nascosto neppure nel film che quello che mi ha regalato il sogno è stato Messner, perché Messner mi ha fatto pensare che anche io avrei potuto fare qualcosa nel mondo della montagna e vivere la mia quotidianità come alpinista, nonostante vivessi a Bergamo, nonostante fossi il secondo di tre fratelli e  nonostante non avessi tradizione alpinistica in casa. Ma io ho sognato, ho sognato con lui, ero uno strano free climber che leggeva i libri di Messner

Che cosa nella vita di tutti i giorni ti apre le porte dell'avventura?

Tutto ciò che faccio è frutto di un puro sogno personale. E quando uno si trova a lavorare sui suoi sogni, non solo non si chiede perché lo faccia, ma la dedizione è veramente totale e non esistono più i concetti di sacrificio, di stanchezza o di delusione, perché se noi pensiamo a quando sogniamo di notte, questi elementi non esistono. Ci possono essere mille vicissitudini nel nostro sogno, ma non ci svegliamo mai la mattina ricordando che nel sogno abbiamo sbuffato o eravamo stanchi: questi sono ragionamenti della parte vigile dei sogni. Ecco, io mi trovo a vivere una parte vigile dei miei sogni come se fossero quelli notturni; ma non ho il tempo stare troppo a pensarci, perché lo sto vivendo con il massimo dell'entusiasmo. Ci mancava solo la storia dell'elicottero: mi ha fatto tornare il ragazzino che leggeva i libri di Messner! Come dicevo ieri con una battuta: "adesso cerco di dormire velocemente"! Sono ancora fortemente eccitato dalla mia quotidianità, che una volta era fatta solo di alpinismo e allenamenti, mentre oggi comprende anche la comunicazione di quest'attività. In più, sto vivendo l'inizio di una nuova avventura con il progetto elicotteristico, dove entrano in gioco elementi che non sono basati solo sull'entusiasmo e la forza fisica, ma hanno a che fare con dinamiche imprenditoriali ed economiche. In teoria dovrei rifuggire, perché non erano parte del mio sogno alpinistico, ma capisco che queste sono le valanghe, i crepacci e i seracchi che incontro in questo mio nuovo sogno e che devo saper superare se voglio arrivare in cima.

Questo sogno è partito da una riflessione su un incidente che hai avuto sull'Annapurna...

E' partito in effetti quasi inconsapevolmente, ed è proprio una riflessione che sto facendo negli ultimi anni: perché mi sono imbarcato in questa avventura? Non c'era un motivo prettamente economico, non c'era la ricerca di nuovi sponsor, non c'era nemmeno la ricerca di nuova fama. Poi, ho capito che non si trattava solo del grande fascino legato a questo mezzo, ma anche all'idea che mi avesse salvato la vita. Spesso, del resto, ho visto come l'elicottero rappresenti l'ultima speranza di aver salva la vita. E, nel caso del Nepal, anche un mezzo anche per aiutare un Paese a crescere, evitando magari di fare lo stesso percorso dei Paesi che sono evoluti prima, cioè costruendo in maniera invasiva strade e ponti, o mettendo chilometri di fili per il telefono o l'elettricità, cose di cui oggi, con le nuove tecnologie, non c'è più bisogno. Non nascondo che l'elicottero ha anche rappresentato l'occasione per capire che cosa farò da grande quando non sarò più un alpinista front line perché a 60 anni o a 65 non puoi più esserlo

Nelle situazioni più difficili che un alpinista come te si trova ad affrontare ci si affida di più alla razionalità o è l'intuito che ti guida maggiormente?

E' un bel mix, perché quando decidi di rinunciare a 90 metri dalla cima, ovviamente è una cosa del tutto razionale, perché la cima ti chiama come una sirena, senti che magari potresti entrare nella storia dell'alpinismo - che intendiamoci, non cambia nulla nella storia del pianeta - ma è qualcosa che può cambiare tanto nella storia della tua vita... In quei casi ho sempre preso decisioni razionali perché non pratico alpinismo come un fine, ma come un mezzo. E non pratico alpinismo neppure per i dieci o quindici minuti in cui ti trovi in vetta; quando sono in vetta, non sono in un posto più bello rispetto a 20 metri prima, e così, quando ritorno da una spedizione senza la vetta, non sento di aver bruciato il progetto. E' come un puzzle a cui manca qualcosa, ma che comunque riesci a vedere nel suo complesso, e magari non sei pronto per incorniciarlo perché stai cercando il pezzo che manca, ma capisci che è solo una questione di tempo, che prima o poi lo troverai.

Avendo al tuo attivo più di 50 spedizioni, conosci molto bene l'ambiente montano per quanto estremo...

Io ho fatto per la precisione 54 spedizioni: se conti che una spedizione dura 2 o 3 mesi, parliamo di 150 mesi che equivalgono a 12 anni. Ciò vuol dire che a partire dal 1992, quindi su un arco di tempo di 23 anni, 12 li ho passati nei posti più freddi, selvaggi  e pericolosi del pianeta.  E se sono ancora vivo è perché ho messo anche tanta razionalità oltre ad aver avuto fortune sfacciate, che non nascondo. Quindi l'elemento lo conosco, ma conosco molto bene anche me stesso in quell'elemento e so ascoltarmi in maniera ancora più acuta oggi rispetto a una volta.

E non ti è mai capitato di dar retta a una sorta di intuito che ti dice "devo andarmene via di qui"...

Mi è capitato al Manaslu, quando non stavamo combinando niente perché scendevano metri di neve - anche se poi siamo andati nel Kumbu dove abbiamo salito un seimila inviolato, abbiamo aperto una via nuova, insomma non abbiamo spalato solo neve - a un certo punto dico a Tamara: "Sai che se qui viene un terremoto partono certe valanghe che spazzano tutto il campo base?" C'è troppa neve, è meglio andare via. Così ce ne siamo andati, siamo arrivati a Katmandù all'Himalaya Hotel al sesto piano e ho detto a Tamara: sai che se qui viene un terremoto vien giù tutto, guarda come costruiscono le case... Abbiamo anticipato il volo (anche se non per questo motivo) e il giorno dopo la nostra partenza, c'è stato il terremoto. In quel caso si tratta ovviamente di puro istinto, quindi credo di poter dire che quella che ho sviluppato è una miscellanea di razionalità e istinto. E se ci penso anche in passato ho preso alcune decisioni irrazionali che mi hanno salvato la vita. Non ho mai raccontato questo fatto perché non volevo sembrare un menagramo...

Delle 54 spedizioni che hai fatto con chi ti sei divertito di più?

Probabilmente con Denis... in tutte quelle che ho fatto con Denis mi sono divertito. Ma non nascondo che anche l'ultima che ho fatto con Tamara mi ha divertito tantissimo, Tamara è una persona con cui si scherza e si ride, con cui provo lo stesso divertimento che ho avuto con Denis - devo dire la verità, non ricordo spedizioni in cui non mi sono divertito, ma quelle con Denis sono state tra le più simpatiche.

A Banff hai detto che alle nuove generazioni lasci volentieri i 14 ottomila in inverno...

Sarebbe bello, sarebbe un bel progetto nonostante io cerchi di non ispirare le nuove generazioni a fare un alpinismo di numeri: non fate un alpinismo di collezione o di cronometro, perché le collezioni e i cronometri vengono emulati o sorpassati e non lasciano molto di sé nella storia dell'esplorazione. C'è ancora così tanto di nuovo da fare, e è bene sviluppare altri elementi, come quello della fantasia, dell'intuizione e dell'esplorazione basata su caratteristiche personali. Bisogna fare del proprio alpinismo la propria carta di identità. Che senso ha essere il numero 37 ad aver fatto i 14 ottomila, con tutti i rischi che questo comporta? Può essere una grande avventura personale, ma allora mi piacerebbe che l'avventura personale fosse anche nella scelta del percorso. E i 14 ottomila in inverno sono solo uno dei progetti che potrei suggerire. Io spero che le nuove generazioni escano un po' dagli schemi, magari gli ottomila non saranno l'unico teatro d'azione, arriveremo a considerare anche i settemila e i seimila e anche, perché no, questi stessi in invernale. Ci sono giochi che non sono mai nemmeno cominciati, come quello dei concatenamenti, delle traversate, degli scavalcamenti degli ottomila. E deve arrivare anche il periodo delle ripetizioni delle vie. Sono convinto che tante vie del passato, fatte anche 40 anni fa, se fossero ripetute sarebbero anche da Piolet d'Or. Ci vuole più pelo a cercare di ripetere alcune vie del passato che ad aprirne di nuove. Anche perché in questo modo ti confronti con qualcuno venuto 30 o 40 anni prima, con il vantaggio delle tecnologie del momento. E sarà un modo di capire, attraverso la ripetizione, la storia dell'alpinismo: invece di limitarsi a leggerla, si tratterebbe di viverla.

Tre parole per descrivere le tre invernali che hai portato a termine:

Parto dall'ultima: per il Gasherbrum 2 direi la commozione. Una volta in cima, sono rimasto a lungo in ginocchio, non solo per la fatica, perché non eravamo acclimatati, ma perché piangevo, perché pensavo a mio papà che sarebbe stato orgoglioso, anche per il peso di quella montagna, forse più grande rispetto al Makalu e allo Shisha Pangma. Al Makalu è stata la rabbia: la piccozzata che ho tirato sulla vetta era per tutti quelli che dicevano che sullo Shisha Pangma ero stato fortunato e per altre polemiche che avevano accompagnato questa salita cercando di sporcarla. Lo Shisha Pangma era il sogno, avevo tentato anche l'anno prima, ma mi ero fermato a 250 metri dalla vetta. Era dal giorno di Natale del 1997 che aspettavo quel momento, era il giorno in cui morì Anatoli e l'avevo aspettato per 8 anni. Era la realizzazione di un sogno che non era neanche mio. Mi dicono che mi è andata di culo, irrispettosi del sentimento che mi aveva mosso ad arrivare lì. Al Makalu, la piccozzata è come se l'avessi tirata nella schiena a tutta questa gente. A quel punto c'è stato un silenzio assordante, perché era da 30 ani che si cercava di salire il Makalu d'inverno. Ci aveva provato Messner, ci aveva provato Krzysztof Wielicki, ci aveva provato Jean Christophe Lafaille e anche Denis Urubko. E poi il G2 la commozione, tre cime che hanno rappresentato 3 sentimenti diversi. Adesso c'è questo Nanga Parbat, che mi ha già cacciato a casa due volte, e siamo in tanti a sognarlo perché ci saranno 5 spedizioni quest’anno. Spero che ci sia qualcuno di noi che vada in cima, così non ci devo tornare. Sul K2 ho promesso di non salirci e quindi, come dicevo, ci sarà magari qualcun altro che seguirà l'obiettivo di salirli tutti.

A te e Tamara un grandissimo in bocca al lupo per la prossima avventura da tutto il team del BMFF WT Italia! 

 

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