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Mario Casella lungo la via della seta: l’arte di “raccontare con i piedi”

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Mario Casella è alpinista, guida alpina, documentarista e giornalista. Ha scalato alcune tra le cime più alte del mondo: dal Cho Oyu (8201 m, senza ossigeno) al Nevado Huascaran, dal Mc Kinley (6195 m) al Pic Lenin (7134 m) e molti altre, mentre negli ultimi tre anni si è dedicato a documentare la vita delle popolazioni rurali che abitano lungo l’antica “Via della seta” attraverso diversi viaggi con gli sci, in inverno. Lo abbiamo incontrato a Banff dove ha presentato “Afghan Winter”, il secondo film della trilogia “Le nevi della seta” legata a questo progetto, che include anche i film “Vite tra i vulcani” e “Alle origini dello sci” 1) Come documentarista e alpinista, qual è per te il significato dell’avventura e dell’esplorazione in un mondo che è stato tutto, se non in larga parte, esplorato o reso accessibile tramite la tecnologia? L'alpinismo, come oggi lo intendiamo, è molto focalizzato sulle performance, sui traguardi e sulle difficoltà tecniche, ma personalmente tutto questo, pur essendo io stesso un alpinista, mi interessa poco: sono decisamente più attratto da una forma di esplorazione che mette al centro le persone. Dopo aver frequentato da alpinista le montagne di tutto il mondo, mi sono reso conto che queste terre sono abitate da popolazioni con stili di vita che raramente vengono raccontati. Raramente si parla di realtà come quelle del Pakistan o dell'Hindu Kush, o del Caucaso e delle problematiche religiose o legate al difficile contesto socio-economico in cui le persone vivono, in condizioni spesso ai limiti della sopravvivenza. Sono tutte cose che ogni alpinista e appassionato di trekking incontra, ma che può finire per ignorare, preso da altre priorità. Io ho deciso di raccontare tutto questo a scapito della narrazione legata alla performance e di raccontarlo in modo non stereotipato. Oggi, quando si parla di Afghanistan, si parla di Kabul, mentre ci sono milioni di persone che vivono in zone rurali e montuose completamente ignorate dalle cronache e credo che il nostro compito – nostro di chi ha le capacità tecniche, logistiche e gli accessi a questi territori – sia quello, invece, di parlarne. In questo tipo di attività e di narrazione, per me il modello è quello dei reportage di Kapuściński o di Rumiz, che scrivono "con i piedi", si muovono a piedi per incontrare da vicino le persone che poi raccontano, praticando una microsociologia in cui poi si riflette la storia di una regione. Oggi, anche grazie alla tecnologia, abbiamo l'impressione di conoscere tutto di tutti, ma in realtà quello che conosciamo è un’immagine parziale di queste parti di mondo. E credo che anche quando si va a scalare una montagna come il K2, non si debba dimenticare che dall'altra parte del ghiacciaio passano gli asini di un esercito che porta i cannoni, le munizioni o il kerosene per i soldati che trascorrono lì l'inverno. Quando qualcuno in Iran ti chiede "ma come ci vedono in Italia, che cosa pensano di noi?", allora sei obbligato a metterti in gioco, a spiegare che se esiste un'immagina stereotipata veicolata dei media, c'è anche la voglia di capire meglio come la gente comune ogni giorno vive sulla propria pelle le situazioni più difficili. 2) Parlando del film che presenti a Banff quest’anno, Afghan Winter, che cosa significa vivere nelle zone rurali dell’Afghanistan in inverno e perché avete scelto proprio l’inverno per esplorare il Paese? La scelta dell'inverno è essenzialmente legata a due fattori, uno tecnico-alpinistico, in quanto lo sci è un mezzo di locomozione che permette una velocità sicuramente superiore rispetto al muoversi a piedi, ma al tempo stesso non è paragonabile a quella di una jeep, e permette una fruizione del paesaggio diversa. Inoltre, lo sci permette di raggiungere anche i luoghi più remoti, che restano isolati per due o tre mesi, e c'è un'atmosfera completamente diversa in questi villaggi, rispetto a quelli in cui una jeep riesce ad arrivare anche solo una o due volte la settimana a portare notizie e beni di prima necessità. Il secondo motivo è il livello di intimità che l'inverno porta con sé. La gente è costretta a casa per il freddo, si siede attorno al fuoco della stufa e tira sera, ha tempo per raccontare, per riflettere, diversamente da quanto accade in estate, quando tutti sono impegnati nel lavoro e in mille attività, con gli animali, con il raccolto e diventa più difficile avere un momento di riflessione e di comunità. E in inverno si vive una vita durissima, a partire dal grande senso di insicurezza e dalle tensioni che ancora si respirano in un Paese che si trova ormai da decenni in una situazione di guerra. Fino a che ognuno rimane nel proprio villaggio, va tutto bene o quasi, ma se soltanto bisogna attraversare una valle per raggiungere un altro villaggio popolato da un’etnia differente, diventa già un problema. Poi ci sono le difficoltà contingenti, legate alla vita quotidiana. Nel Wakan, per esempio, che è un corridoio lungo più di 200 km incastrato tra la Cina, il Tagikistan e il Pakistan, in inverno bisogna camminare lungo il fiume ghiacciato ed è un’area veramente molto isolata. Qui la sfida è sopravvivere e farlo con soltanto due alimenti di base, il tè e la focaccia. Ci è successo di aver calcolato male gli approvvigionamenti ed è stato per noi molto imbarazzante dover chiedere aiuto a queste persone che erano già in stato di evidente difficoltà fisiologica. In questo viaggio, gli sci hanno rappresentato anche un importante strumento di comunicazione. Non appena arrivavamo nei villaggi, tutte le persone volevano vederli, provarli, ed è così che è nata una sorta di complicità tra questa gente che vive tutto l'anno in montagna e noi che della montagna abbiamo la passione. I bambini di alcuni di questi villaggi, in realtà, hanno già scoperto lo sci e lo praticano costruendo sci rudimentali... alcuni gruppi come il nostro hanno iniziato a portare loro degli sci veri, in modo che abbiano a disposizione un’attrezzatura un po' più moderna. 3) Che cosa ti ha colpito di più di questo viaggio?  Probabilmente, questo è stato uno dei viaggi che mi ha chiesto un periodo di “digestione” più lungo, una volta rientrato, rispetto ad altri. È stato davvero deprimente vedere un Paese così bello messo in ginocchio da decenni di guerra e mi ha colpito molto percepire nelle parole della gente la completa mancanza di prospettiva, un sentimento alimentato anche dalla mancanza di valore della vita, perché in quei luoghi per morire basta davvero poco, basta incontrare una persona di umore sbagliato. Oltre a questo, una delle cose che mi hanno colpito di più è stato percorrere la prima parte del corridoio del Wakan, al confine tra Tagikistan e Afghanistan. Qui il confine è segnato dal fiume Mudaria, che sarà largo una cinquanta di metri e questo spazio così minuscolo divide in realtà il medio evo dall'epoca moderna, perché mentre in Tagikistan ci sono strade asfaltate, lampioni e nei villaggi c'è il telefono, i televisori... dall'altra parte, le case sono costruite in fango, senza elettricità, senza telefonini, e i personaggi del documentario raccontano anche la frustrazione di vivere in un luogo in cui i tuoi vicini di casa è come se arrivassero dal futuro, ed è una cosa che è davvero drammatica, difficile da capire fino a che non la vivi. 4) Come immagini il futuro di questo Paese? Quali sono i segnali di speranza che puoi raccontare di aver visto? Nel nostro film raccontiamo in effetti una storia di speranza, la storia di ragazzi molto giovani, che hanno fatto la scelta coraggiosa di restare nel Paese e di non arrendersi a emigrare. Spero di essere riuscito a trasmettere il grande coraggio che li anima. Questi due ragazzi, e soprattutto Alicia, che è la protagonista del film, hanno il grande sogno di qualificarsi per le Olimpiadi Invernali del 2018 in Corea del Sud. Negli ultimi due anni hanno trascorso due inverni in Engadina, grazie a sostegni privati, e hanno preso lezioni per quasi due mesi per migliorare il loro livello. Quello che colpisce è che poi, dopo questa esperienza, sono tornati nel loro villaggio e oggi insegnano ai ragazzi a sciare. Adesso stanno anche cercando di installare un piccolo skilift e poche settimane fa la FIS ha riconosciuto e accolto la nuova Federazione di Sci Afgana: piano piano questo sogno sta diventando realtà. 4) Afghan Winter fa parte del progetto Le nevi della seta. Uno dei percorsi che nei secoli passati era tra i più ricchi di scambi, oggi è diventato un viaggio estremamente difficile, quali sono state le principali difficoltà logistiche che avete dovuto affrontare? Dal punto di vista logistico, il nostro è in realtà un piccolo gruppo di tre persone che si muove in maniera molto leggera. Siamo io, Fulvio Mariani e Nicola Bossar, e la nostra unità di misura è la jeep, con cui viaggiamo insieme all'interprete e all'autista. Tutta la nostra attrezzatura sta dentro gli zaini. Avevamo videocamere molto piccole ed eravamo attrezzati per percorrere lunghi tratti a piedi, quindi per forza dovevamo essere leggeri. Quello che per noi è davvero fondamentale – quando lavoriamo a progetti documentaristici di una certa importanza – è giocare d’anticipo e fare un viaggio di ricognizione un anno prima, per scegliere le storie da raccontare e cercare di fissare alcuni punti, poi ci muoviamo lasciando spazio all'improvvisazione. Questo progetto è durato 5 anni ed è nato dopo la mia prima esperienza in Caucaso, in cui avevo una videocamera e viaggiavo da solo. Ho messo insieme una sorta di reportage ma quando sono tornato mi sono detto: "mai più una cosa del genere," perché per me è stato uno stress troppo forte. Dovevo occuparmi di tutto: la logistica, l'itinerario, la lingua, portare il materiale e poi, una volta arrivato al villaggio, bisognava mettersi a filmare. Mi sembrava davvero troppo per me, ma ho anche capito che il modo giusto di muoversi per raccontare queste regioni era proprio camminare, filmare e fermarsi il tempo che serve per raccontare una storia interessante. Così mi sono detto alla fine che questa esperienza l’avrei voluta ripetere, ma con qualcuno. Così ho esposto a Fulvio il mio progetto di raccontare la vita contemporanea delle persone che vivono lungo la via della seta. Paradossalmente, grazie ai racconti di Marco Polo, sappiamo come vivevano in un passato molto lontano, ma non sappiamo, non abbiamo idea di come vivono oggi, soprattutto fuori dalle grandi città. Così, facendo un po' di calcoli, abbiamo capito che ci sarebbero serviti tre inverni per realizzare l’intero progetto. Abbiamo iniziato dalla Turchia, dal monte Ararat, e durante il primo inverno abbiamo attraversato tutto il nord dell'Iran fino al confine con l'Afghanistan. Era il 2011 e abbiamo girato la parte di documentario che si chiama Vita tra i vulcani. L'anno dopo, avremmo dovuto andare in Afghanistan ma per motivi logistici abbiamo dovuto annullare tutto. L'anno successivo siamo tornati a girare la parte centrale di questa trilogia e l'ultimo inverno abbiamo ripreso dal confine tra l'Afghanistan e la Cina. Abbiamo attraversato le montagne dello Tien Shan tra il Kyrgyzstan e la Cina fino alle montagne dell'Altai. 5) Siamo abituati ad associare alle montagne l’immagine della pace, tipicamente andiamo in montagna per “cercare pace”. Quelle che tu racconti sono invece molto spesso “montagne di guerra”. Come hai vissuto l’esperienza della guerra sulle montagne che hai visitato? Nella mia esperienza, prima di alpinista e poi di documentarista, mi sono reso conto che spesso le montagne attirano come calamite conflitti e tensioni. Questo accade anche e soprattutto quando si trovano sui confini, come succede tra India e Pakistan, con questa situazione assurda del ghiacciaio del Siachen, che io e Fulvio abbiamo raccontato in un altro documentario ("Siachen – Una guerra per il ghiaccio" ndr), dove da oltre vent’anni, indiani e pakistani si combattono per controllare pochi chilometri quadrati di ghiacciaio. Poi, andando indietro nel tempo, basta pensare alle Dolomiti, oggi paradiso dell'arrampicata, che sono state teatro di una guerra altrettanto assurda esattamente un secolo fa. Credo che rivolgere anche solo un pensiero a quello che è successo permetta di vivere questo paesaggio con un senso di consapevolezza molto più profondo e umanamente più gratificante. Il legame tra le montagne e i conflitti è stato anche teorizzato; alcuni libri di studiosi di geopolitica americani sostengono che le montagne attirano le guerre. Spesso le montagne sono valichi importantissimi per accedere a risorse come il petrolio. Credo che si debba sempre tenere presente tutto questo, anche quando si scala, non si può considerare la montagna solo come una palestra per allenarsi. 6) Se dovessi riassumere questo viaggio in una sola immagine, quale sarebbe? Forse l’immagine più bella che porto con me è lo sguardo sorridente di un ragazzino alla fine di una discesa nella neve fatta con due sci di legno rudimentali, gli stivali di gomma e un bastone tra le mani. Sciargli accanto con il materiale di ultima generazione non cancella assolutamente il fatto che ci stavamo divertendo allo stesso modo, sulla neve, in montagna. Credo che questi piccoli momenti di vicinanza e di felicità siano tra i ricordi più belli di un contesto in generale molto deprimente.        

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