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SCRIVERE UN LIBRO? È COME SCALARE EL CAP A PIEDI NUDI

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caldwell

[caption id="attachment_23281" align="aligncenter" width="900"]caldwell Photo by Climbing.com[/caption]

Dopo la grande avventura della Dawn Wall, Tommy Caldwell decide di partire per un nuovo viaggio non meno denso di incognite: scrivere un libro.

L'articolo è stato tradotto e adattato dall'originale su Banffcentre.ca

Non siamo mai fermi. Quando pensiamo di essere all'inizio di un viaggio, succede di essere alla fine. E quando siamo convinti di essere alla fine, spesso siamo solo a un nuovo inizio (Willie Nelson)

Mi chiedo dove mi trovo adesso. Quasi 20 anni di vita dedicati ossessivamente a un'attività essenzialmente inutile come l'arrampicata. Per lo più limitata a una singola parete di granito, El Capitan. È stata una specie di favola con il lieto fine – almeno nell'ottica dell'attuale generazione "look at me" – con tutto il mondo che guardava me e Kevin Jorgeson in cima alla Dawn Wall. Abbiamo ricevuto una telefonata dal Presidente e abbiamo generato sui media 13 miliardi di impression. Non riesco ancora a fare i conti con quanto tutto questo sia assurdo, inaspettato, e forse nemmeno poi tanto desiderato. L'attenzione dei media è stata senz'altro un balsamo per l'ego, il che per uno come me, con un passato di ragazzino goffo e dislessico, è sicuramente una buona cosa... Perché mi sento così a disagio, quindi? Forse si tratta di una crisi di identità. Arrampicare è sempre stato per me come entrare in un mondo fantastico, dare vita a una sorta di culto barbarico, fuggire dalla società moderna dove tutto è una questione di soldi o potere. Come climber avevamo trovato un modo per ingannare il sistema:  vivere all'aria aperta, godersi la natura, evitare lo stress. Ma via via che l'arrampicata è diventata uno sport di massa, ha perso almeno in parte il suo fascino da controcultura. Senza quasi volerlo, i climber più dotati sono diventati professionisti. Anche per me, la Dawn Wall ha creato nuove opportunità che mai avrei potuto immaginare. E qui c'è il dilemma. Mi sono trovato a un bivio che ha a che fare con l'identità di quello che pratico: l'arrampicata come fuga o come conformismo? La mia ambizione di voler scrivere un libro è nata come ricerca della verità. E volevo una bella avventura da raccontare. Dopo 30 anni passati più o meno appeso alle pareti come una specie di scimmia, ho pensato fosse tempo di cambiare la mia vita e usare il cervello. E se c'è una cosa che distingue l'arrampicata da tutti gli altri sport è il modo in cui sa creare una potente narrativa. Ho letto innumerevoli storie, ho cercato di raccontare la mia. E mi sembrava che ci fosse del materiale per un romanzo, a partire dal modo in cui sono venuto al mondo, pesando poco più di un chilo. Poi c'era la vicenda del rapimento, che mi ha visto ostaggio per sei surreali e terribili giorni tra le montagne del Kyrgyzstan, un momento che ha cambiato la mia vita. Quello è stato l'inizio. Così preparai una proposta e mi gettai nello sconosciuto mare dell'editoria ritrovandomi al 19mo piano del Chrysler Building a New York City con il mio agente letterario. In due giorni abbiamo incontrato 16 editori, devo aver recitato la parte piuttosto bene perché il libro andò all'asta e dopo poche settimane ero sotto contratto. È stato un po' come trovarsi daccapo a scalare El Cap, a piedi nudi e con un paio di nut come unica attrezzatura. E la mia reazione iniziale fu qualcosa che l'arrampicata mi aveva insegnato molto bene: un gioioso masochismo. Jon Krakauer mi disse che scrivere era come scavare una buca. "Ci devi entrare, e ogni giorno avanzi di qualche centimetro".   Quaranta ore a settimana dietro a un computer per un anno? Sì, ero super carico e penso che tutto ebbe inizio dalla mia ambizione di voler scrivere bene. Immediatamente, però, capii di avere un grande problema. Nonostante il feedback positivo di molti lettori di Alpinist Magazine e Rock & Ice, io non sapevo scrivere. Ma per fortuna, arrampicare ci insegna a contare sugli altri, così presi la decisione – che mi salvò la vita – di collaborare con il mio caro amico e grande scrittore Kelly Cordes, che acconsentì a essere il mio "maestro di scrittura". Senza di lui, e senza l'incoraggiamento di molti altri amici, avrei sicuramente rinunciato molto tempo fa.  È così che sono arrivato al Banff Centre. Io e Kelly abbiamo passato le due settimane prima della data di consegna della prima bozza in una piccola baita nei boschi, progettata per favorire la creatività (...) Nello spazio di pochi acri di bosco c'erano altri sette baite "creative" come questa e capitava, passeggiando nei boschi, di incontrare pittori o musicisti.... mi sentivo completamente fuori posto per certi versi, ma per altri ero finalmente a casa.  Non ho mai pensato a me come a una persona creativa ma ho capito che la creatività può arrivare in diverse forme. Arrampicare è stata la mia arte, ma è davvero l'arrampicata quello di cui sono innamorato? O si tratta di una forma espressiva per veicolare le mie emozioni? Quando guardo negli occhi il pittore vicino a me, che sta lavorando al suo debutto in una galleria, vedo la stessa eccitazione di quando sto per partire per una spedizione.  In quel periodo scrivevo per 16 ore al giorno, la mia attrezzatura da arrampicata se ne è rimasta in valigia e per la prima volta nella mia vita non ho nemmeno avuto la tentazione di usarla.  Quando avevo bisogno di fare una pausa, andavo a correre in montagna e correndo sentivo di avere nuove idee e dovevo fermarmi per scriverle, e lo stesso mi accadeva la notte, prima di dormire: le idee diventavano prima frasi, poi pagine, poi capitoli. E credo che le mie parole diventassero più vere, che ci fosse più poesia nel mio linguaggio. E l'atto di creare qualcosa è appagante a un livello che direi molecolare, non diverso da quello che ti regala l'arrampicata. Pensavo che scrivere un libro fosse un modo di rispondere alle mie domande. Ma, dopo quasi un anno di lavoro, sono giunto alla conclusione che la buona scrittura non porta a dare risposte, ma a sollevare domande ancora più difficili.   Quando arrampichiamo, pensiamo di raggiungere un obiettivo, ma quando poi arriviamo effettivamente in cima, non troviamo altro che nuove incertezze, e forse è proprio così che deve essere, perché l'incertezza è quella cosa che precede l'euforia e l'euforia porta alla ricerca di ulteriori condizioni di incertezza. Ed è per questo che, in fondo, la nostra ricerca di nuove cime non ci porterà mai alla fine di qualcosa, ma sempre a un nuovo inizio.  

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