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La Patagonia di Ines Papert: mai rinunciare ai propri sogni

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riders-6b   Negli ultimi dieci anni, Ines Papert ha firmato nuovi record nell'arrampicata su misto, ha conquistato per quattro volte il titolo di campionessa mondiale per l’arrampicata su ghiaccio nelle gare di difficoltà e ha vinto 3 volte la Coppa del Mondo assoluta. Insieme alla climber neozelandese Mayan Smith-Gobath ha completato, lo scorso 6 febbraio, la salita di Riders on The Storm, sulla Torre Centrale del Paine, in Patagonia, a 25 anni dalla prima, epica salita che porta il nome di Wolfgang Güllich, Kurt Albert, Bernd Arnold, Peter Dittrich e Norbert Bätz, effettuata nel 1991. La straordinaria impresa al femminile di Ines e Mayan è diventata un film – Riders on the Storm appunto – presentato al Banff Mountain Film Festival per la prima volta. Abbiamo incontrato Ines per una chiacchierata sulla sua incredibile impresa, sulla sua vita di climber pro e sull'immagine simbolo del Banff Mountain Film Festival 2016, che la vede protagonista. . 1) Ines, sei la protagonista dell’immagine simbolo del Banff Mountain Film Festival 2016 – vuoi raccontarci qualcosa sulla storia di questa foto?  La foto è stata scattata su una via che avevamo aperto tre anni fa, in Norvegia. È una grande parete di misto, una via che speravamo di ripetere in libera ma che alla fine non riuscimmo a fare perché la roccia è troppo friabile e troppo difficile da proteggere quindi… a ben vedere, questa foto non è proprio niente di cui andare orgogliosa! È un’immagine molto bella però, perché si vede bene l’isola di Senja, un luogo molto selvaggio in Norvegia, un luogo che amo molto. 2) Il film che presenti a Banff, Riders on the Storm, racconta la tua spedizione in Patagonia, sulle orme di Wolfgang Güllich, Kurt Albert, Bernd Arnold, Norbert Bätz e Peter Dittrich. Era la tua prima volta in Patagonia? Come ti sei sentita a ripetere una via aperta da queste leggende dell’alpinismo? Sì, era la mia prima volta in Patagonia. Non che non avessi mai pensato di andarci, ma mi preoccupavano le condizioni meteo, il vento, che laggiù è terribile, e avevo paura di non riuscire ad arrampicare proprio per via delle condizioni. Molti miei amici che erano andati laggiù erano tornati senza raggiungere nessuna cima, quindi diciamo che fino ad allora avevo saltato quella parte di mondo. Ma quando ho visto una foto del 1991, di questa splendida parete di 1300 metri sulla Torre Centrale, mi sono innamorata di questa straordinaria montagna e ho pensato che se mai fossi andata in Patagonia è lì che mi sarei diretta. Naturalmente ci è voluto del tempo per trovare il momento giusto e i partner giusti. Volevo mettere insieme il team migliore. Poco tempo prima di quando avevo deciso di partire, ho incontrato la mia futura socia, la neozelandese Mayan Smith-Gobat. Le ho parlato di questa via in Patagonia e le ho chiesto se sarebbe stata interessata all'idea di farla in libera e lei si è subito dimostrata entusiasta. Così, prima di tutto abbiamo messo alla prova la nostra squadra con un viaggio in Canada, per essere sicure di essere davvero affiatate. Poiché tutto effettivamente andò bene, ci trovammo pronte ad andare a ripetere la via in Patagonia la scorsa estate, dopo 25 anni da quella prima salita. Ho letto tutti gli articoli usciti su quella straordinaria impresa, e ho parlato con Arnold, uno dei primi salitori. Ma alla fine poi mi sono fatta un’idea di quella che sarebbe stata la mia via e ho seguito quella. Naturalmente, resta il fatto che ciò che hanno fatto a quel tempo, la sola idea di farla in libera era straordinariamente ambiziosa, e anche se poi non la completarono in libera – credo che riuscirono a farne circa metà – riuscirono a salire in cima senza portaledge, senza l’equipaggiamento e la protezioni che abbiamo oggi. Naturalmente resta il fatto che la montagna è la stessa e le difficoltà sono le stesse, così come le incognite legate al tempo, alla presenza di ghiaccio nelle fessure, all'esposizione… ero sicura che avremmo trovato una montagna difficile e che il progetto sarebbe stato davvero una grande sfida. E così è stato! 3) Sei arrivata in cima il 6 febbraio, dopo 15 giorni in parete, vuoi raccontarci qualcosa della scalata? Da quando siamo arrivati, il tempo è stato subito bellissimo, così, subito dopo il viaggio, siamo andati direttamente in parete, abbiamo scalato per 10 giorni di fila, andavamo a dormire molto tardi e ci alzavamo molto presto. Ci siamo sempre concessi solo poche ore di sonno, abbiamo lavorato così duro che alla fine quasi speravamo in un po’ di maltempo! Siamo saliti lungo una nuova variante alla via, di quattro tiri. Di questi, due li abbiamo saliti in libera e due no, restano da liberare nella parte bassa, perché erano bagnati quando li abbiamo attaccati, avremmo voluto tornare indietro più tardi, ma il tempo si guastò veramente. Sono comunque più che soddisfatta, abbiamo raggiunto la cima, che era il nostro obiettivo principale e scalato in libera circa il 95%, della via che è un risultato davvero sorprendente per gli standard della Patagonia. Abbiamo avuto davvero fortuna grazie a un’ampia finestra di bel tempo. Le difficoltà e i rischi derivano anche dal fatto che la via diventa pericolosa con le alte temperature, ma per scalare in libera servono temperature alte e qui si genera una sorta di… conflitto, molto difficile da risolvere, e anche per questo alla fine ho deciso di non tornare a ripetere i tiri mancanti. È stata una decisione difficile perché ormai sapevo esattamente com’era e a che cosa sarei andata incontro, ma ho preso questa decisione. Mayan non è madre e credo abbia un diverso rapporto con il rischio, lei tornerà in Patagonia il prossimo inverno per liberare l’intera via, conosce i rischi a cui va incontro ed è pronta ad affrontarli. Ogni volta che parto per una spedizione prometto a mio figlio di tornare e mi sentivo responsabile nei suoi confronti, nei confronti del mio team e di me stessa. 4) Nel team eravate tu e Mayan, mentre Thomas (Senf, autore dell’immagine-simbolo del BMFF 2016) era di supporto… Thomas ci ha aiutato moltissimo con le operazioni di recupero del materiale, a mettere le corde, a fotografare, è stato a tutti gli effetti un membro importantissimo della spedizione anche se non ha arrampicato, così ogni volta che dovevamo prendere una decisione non eravamo solo io e Mayan. Conosco Thomas da molto tempo e siamo quasi fratelli. Ha arrampicato molto in Himalaya a livelli piuttosto alti. Non conosco nessun altro fotografo capace di produrre risultati di così alta qualità lavorando in queste condizioni e senza mai interferire con l’arrampicata. 5) Qual è la cosa che ti attrae di più dell’arrampicata su ghiaccio, che cosa ti attira in luoghi che visti dall'esterno possono sembrare davvero inospitali? Amo il freddo. Il mio corpo funziona molto meglio quando fa freddo e questa potrebbe essere una ragione, ma credo anche di essere catturata dal fatto che il ghiaccio è qualcosa di effimero, che appare e scompare, e disegna linee di grande bellezza. Non sento lo stesso grado di libertà arrampicando sulla roccia, perché sul ghiaccio posso decidere dove arrampicare, dove  mettere le protezioni e poi i suoi colori, le diverse strutture a cui i cristalli danno forma: il ghiaccio può essere morbido, duro, blu e anche color oro… è un elemento quasi vivente. 6) È cambiato qualcosa nel modo in cui affronti le tue sfide, da quando sei diventata mamma? Naturalmente sì, cerco di evitare i rischi più ovvi. Se capisco che una montagna ha un potenziale di rischio troppo elevato, se capisco il pericolo ancora prima di iniziare ad arrampicare, la evito tout court. Non credo valga la pena di mettere a rischio la mia vita, anche se, d’altro canto, non credo che il fatto di essere madre sia un buon motivo per smettere di arrampicare. Senz'altro ho dovuto organizzare meglio il mio tempo perché quello disponibile per arrampicare è diminuito. Oggi però Manuel ha 16 anni e anche lui ama molto arrampicare. Prima era più appassionato di sci e mountain-bike… facciamo molte attività insieme e viaggiamo insieme, mi segue ai campi base, anche se magari non si ferma per tutto il viaggio. Ho cercato di coinvolgerlo il più possibile nella mia community e speravo, in effetti, che a un certo punto si appassionasse all'arrampicata. Adesso, quando arrampichiamo solo noi due, si comporta come il classico teenager non sempre felice di accettare consigli da sua madre, ma se siamo con altre persone è incredibilmente gentile, la gente si stupisce di quanto sia carino! 7) C’è stato un momento particolare nella tua vita in cui hai capito che saresti diventata una scalatrice professionista? Paradossalmente è stato più o meno nel 2000 quando è nato Manuel. Proprio in quell’anno ho partecipato alla Coppa del Mondo di arrampicata su ghiaccio e ho incontrato le persone e le aziende giuste che hanno iniziato a sostenere la mia attività. È stato molto bello poter lavorare sia come climber che come fisioterapista il primo anno, ma mi sono accorta molto presto che avere un bambino, lavorare e arrampicare ad alto livello era un po’ troppo… così dovetti decidere se continuare a lavorare e smettere di arrampicare o il contrario, ed è stata una decisione piuttosto facile come si può intuire… e ne sono felice, perché ogni giorno è diverso dall'altro, non ho una routine e… beh è perfetto direi! 8) A proposito di esplorazione e avventura: esiste secondo te un modo prettamente femminile di esplorare? Qual è il contributo che le donne possono dare a un mondo tradizionalmente dominato dalle figure maschili? Arrampicare per raggiungere un obiettivo è un’attività abbastanza egoistica e priva di utilità a ben vedere; che la faccia un uomo o una donna, è importante solo per chi la fa. Ma quando si tratta di condividere quest’esperienza raccontandola attraverso i mezzi di comunicazione, allora diventa possibile raggiungere altre persone e questo aggiunge una nuova dimensione all'esperienza. Per esempio, ho incontrato moltissime donne che avevano dovuto smettere di arrampicare dopo aver messo su famiglia ed erano dispiaciute per questo, avrebbero voluto del tempo per sé e per le proprie passioni nonostante amassero la propria famiglia, e io credo che ci si debba sempre tenere la possibilità di seguire i propri sogni e fare le cose che piacciono. Ogni donna credo lo meriti, sia che abbia famiglia o meno, e quello che cerco di trasmettere loro è che una cosa non esclude l’altra anche se non è sempre facile a livello logistico e non solo. Sono convinta che sia importante, come donne, non perdere mai di vista quello che davvero vogliamo piuttosto che quello che gli altri si aspettano da noi. 9) Dove ami di più scalare in Italia? Forse dovrei dire le Dolomiti, ma in Marmolada ho avuto una delle esperienze più traumatiche della mia vita, mi sono rotta una gamba in seguito a una caduta circa dieci anni fa, nel 2005. Ero molto spericolata in quel periodo, non guardavo le previsioni del tempo… e la fretta per cercare di arrivare prima del maltempo ha fatto sì che mi facessi male. Sicuramente è stata una lezione importante. In Italia ho arrampicato in posti diversi, a Finale, a Sperlonga, in Sardegna… Amo viaggiare in Italia, perché le persone sono aperte e disponibili, la pizza è ottima e al di là di questo amo la mentalità italiana e la sento decisamente più vicina a me rispetto a quella tedesca.          

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